QUANDO LO SPORT ARRIVA A MIETERE
VITTIME SI SCADE NELLA BARBARIE
L'ultimo saluto a Marco Pantani
Non è solitamente nella filosofia
di “Correre nel verde” cavalcare la cronaca e le notizie in tono
sensazionalistico, ma non è questo il caso di andare per il sottile, visto
che si scrive all’indomani di quella che si può in tutti i sensi considerare
una tragedia non solo umana, ma che travolge in pieno il mondo dello sport
italiano ed internazionale.
Sono dunque l’emotività e la
coscienza a farci parlare oggi, non semplicemente
- e come è comunque doveroso fare -
per ricordare un grandissimo campione di uno degli sport più antichi
e nobili quale è il ciclismo, ma anche e soprattutto per fare qualche considerazione
in merito alla situazione che fa da quadro a questi terribili avvenimenti.
Marco Pantani è stato indiscutibilmente
un grande eroe per grandi e piccini nel momento in cui, con la sua espressione
sofferente, tagliava i traguardi delle tappe del Tour de France e
del Giro d’Italia, a partire dal 1994 per arrivare alla vittoria
di entrambe queste competizioni nel 1998; ma Marco Pantani ha rappresentato
anche e soprattutto un business per il mondo del ciclismo e dello sport
in generale, oltre che per tutte le sfere ad essi connesse, comprese quella
dei mass media e quella della pubblicità.
Non solo: Marco Pantani è diventato
poi di colpo il capro espiatorio di un malcostume che ormai sembra essere
un fenomeno dilagante ed inarrestabile nel mondo dello sport, il doping,
e da quel momento in avanti si è assistito ad un fenomeno di silente e compatto
abbandono nei suoi confronti da parte di quegli ambienti che lo avevano
tanto osannato, perché personaggio ormai coperto da scandalo ed ombre, insomma,
un ex-campione divenuto “scomodo”, proprio per la gran parte di coloro che
si possono ritenere responsabili tanto del suo successo quanto forse in
egual misura del suo declino.
Ed è allora questo uno degli
aspetti che ci teniamo maggiormente a sottolineare dopo che una morte solitaria
ed angosciosa ha colpito non solo un
mito delle “due ruote ecologiche”, ma – non dimentichiamolo
- un ragazzo di 34 anni che era arrivato nella sua giovane vita ad assaporare
in poco tempo il massimo del successo e della fama.
Il mondo del grande sport, parliamo
di quello ai massimi livelli e non certo quello dei tifosi, il mondo caratterizzato
dai grandi nomi e dai circuiti miliardari ha deciso all’indomani dello”scandalo
doping” di lasciare da parte Marco Pantani, solo ieri suo prediletto pupillo,
e di consegnarlo, dopo averlo innalzato agli onori dell’Olimpo, allo scorno
ed al silenzio.
In queste vicende il nostro
unico ruolo da esterni può essere quello di far riflettere su quanto la
fama ed il successo possano divenire in certi contesti particolari fatali
per chiunque, anche se si tratta in fondo di un ragazzo normale, di cui
inevitabilmente si è spesso dimenticato l’aspetto più puramente umano per
esaltare il “Pirata Pantani” i cui muscoli funzionavano come
pistoni di un rombante motore spinto al massimo su per salite e scatti di
velocità dalla forza di un magico carburante.
Ma sono purtroppo i suoi occhi
sulle foto in prima pagina di riviste e quotidiani, commossi e pensierosi,
che ci riportano anche oggi bruscamente ad una realtà che tutti conosciamo,
ma che spesso e volentieri ci troviamo a voler dimenticare, ossia quella
che porta sempre più lo sport, stavolta inteso in senso generale, a perdere
quei connotati originari di sana competitività tra soggetti per trasformarsi
in un fenomeno di costume e di massa, quest’ultima intesa nel senso più
negativo del termine: non quindi quella massa di persone alle quali spontaneamente
si infiamma l'animo per l’entusiasmo delle grandi imprese che fanno sognare,
ma quella in balìa di un insieme di meccanismi di mercato e che si muove
in maniera del tutto prevedibile, controllata senza troppi scrupoli.
È quindi quando lo sport miete
vittime che non ci sentiamo più di parlarne in modo positivo, è quando il
“sistema” che crea un mito non si vergogna o si preoccupa di abbandonarlo,
è quando si perde di vista l’uomo perché assalito dall' apparentemente inspiegabile
“male oscuro” (la forte depressione che ha avvolto l’animo di Pantani)
che ci allontaniamo dallo spirito che ognuno di noi crede di veder esaltato
in questi personaggi, è quando Marco Pantani muore solo nella stanza di
un residence a causa di un cocktail di psicofarmaci e antidepressivi (che
sia stato assunto in maniera cosciente per farla finita o in modo incontrollato
per un eccesso di disperazione non fa differenza) che nessuno di noi può
piangere con l’animo totalmente incolpevole.
Lasciamo quindi ad altri lo
sforzo ormai inutile, a nostro parere, di fare illazioni su come si sia
verificato tecnicamente il decesso, allontanandosi più o meno dalla realtà
dei fatti, che magari mai conosceremo fino in fondo: prendiamo invece tutto
l’onere di ribadire a gran voce che allo sport non servono i morti, mentre
continua a scendere un’amara e consapevole lacrima carica di significato
per la morte di un personaggio a cui eravamo davvero affezionati e per il
lutto che coinvolge il mondo del ciclismo, uno sport che, nonostante tutto,
non riusciamo a smettere di amare.
Alessandra Giordani
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