LA SALA: UN AMBIENTE DI
LAVORO
Cari lettori mi trovo nella (solo per me)
spiacevole circostanza di dovervi confessare una mia brutta figura. Con un
giovane amico con provata esperienza di sala ho avuto un civilissimo diverbio.
Il tema era la cucina nel più ampio senso del
termine nello specifico, l’importanza di tutto ciò che si utilizza per
mangiare e bere (posate, bicchieri, sedie, fiori, portacenere, abbigliamento,
ecc.).
Lui parlava di regole, usi
e consuetudini ed io lo
contrastavo facendo pesare i miei anni, la mia arteriosclerosi e la mia
prosopopea nel dare incontrastato primato al proprio gusto, alla propria
sensibilità, al proprio stato d’animo, bacchette cinesi per mangiare l’abbacchio,
mani (come nel film di Totò) per gli spaghetti, pulirsi la bocca con l’avambraccio
munito o no di manica di camicia, ascia per sbucciare a mela, coltello e
forchetta per le fragoline di bosco, attaccarsi direttamente al collo della
bottiglia per bere e cannuccia per il caffè, insomma "libertà"
assoluta.
Boriosamente contento di aver zittito l’avversario
troppo coretto per non accettare l’idea che la libertà di espressione è
sovrana, troppo attento per non cogliere uno dei miei motti preferiti cioè che
la propria libertà finisce dove inizia quella altrui e conseguentemente
consapevole che non considero lecito mangiare prosciutto in una moschea, non mi
poneva nessuna contrapposizione di quelle che di solito si usano per il gusto di
aver ragione per forza, cosa abbastanza facile quando si ha una buona dialettica
e si fanno estrapolazioni a proprio uso e consumo sulle frasi degli altri.
Fin qui tutto bene, poi come un fulmine a ciel sereno
mi è piombato sul collo il meritato castigo:"Se è così bello essere
liberi ed infrangere le regole o quantomeno modificarle, forse sarebbe giusto
prima descriverle e poi spiegarle".
Ho farfugliato delle improponibili quanto banali
eccezioni, dopo di che ho piegato la testa: "comincia a scriverle queste
maledettissime regole" e con la cenere sul capo sono uscito dalla scena.
Giorgio Gandini
LA SALA
Cari amici lettori, sono onorato di poter esporre ed
illustrare le metodologie dell’arte della ristorazione; quest’ultima, nel
corso dei tempi, ha subito tantissimi cambiamenti adattandosi alle notevoli
mutazioni dell’alimentazione umana.
Parlando di sale, quindi di ristoranti, trattorie,
alberghi, è facile suddividerle e paragonarle al tenore di vita delle diverse
classi sociali, proprio come le osterie frequentate da rumorosi avventori e le
sale da pranzo delle navi da crociera frequentate solamente da una certa elite.
Proprio questa classificazione mi ha portato la voglia di farvi conoscere i modi
e costumi della "SALA" italiana.
Cominciamo a definire cos’è la "sala". Non
è semplicemente il luogo dove viene svolto il servizio ma è l’ambiente di
lavoro degli operatori. Ci sono diverse persone che compongono la sala : lo chef,
che ha il ruolo di organizzare la cucina, il suo aiuto, gli addetti alla
manutenzione della cucina e quelli alla pulizia degli ambienti, il caposala, il
quale ha la responsabilità di coordinare i camerieri e far si che tutto
funzioni alla perfezione. Poi all’interno di una "sala" ci sono tre
o più camerieri che prendono le "comande" (l’ordinazione dei
clienti) ed una o due persone (comis) addette alla cura dei tavoli, ossia
controllare che non manchi acqua, pane, tovaglioli; talvolta è presente un sommelier.
I compiti più gravosi, sotto il profilo lavorativo e
di responsabilità, li hanno lo chef ed il caposala, infatti il primo ha la
responsabilità dei cibi e la preparazione dei piatti l'altro deve assicurare al
cliente un servizio curato e minuzioso in modo tale che quando le persone si
alzeranno dal tavolo, saranno disposte a tornare e faranno senz’altro una
buona pubblicità del locale in cui sono andati.
" Il caposala" Tomeo Giampaolo Filippo
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